22 gennaio 2011

Joystick [guest post by Ettore Aldimari]

Premere il pulsante alto e muovere la leva a destra e sinistra, tenendo sempre schiacciato. Ecco. Era così. Avevo appena, dopo undicimila tentativi, imparato a muovere il portiere della mia squadra in Calcio Replay. All’epoca non c’erano confezioni e spiegazioni. Solo cassettine. Il giorno prima ero persino riuscito a colorare il campo di bianco, effetto neve. Ero il bambino più felice del mondo. O quantomeno del mio condominio.



Avevo un Commodore 64. Non avevo indagato più di tanto su come avesse fatto la befana ad avere le nozioni esatte per comprarlo, ma chissenestra. Il mio joystick era dotato di una fantascientifica impugnatura nera e gialla, con 5 pulsanti sparpagliati ovunque, e quattro ventose che lavoravano bene. Insomma, ci davo dentro di brutto, e solo l’esplosione del trasformatore incandescente avrebbe potuto fermare la deriva di un decenne alle prese con il libero arbitrio attraverso il tvcolor di casa. Ero un po’ scettico sul registratore leggi cassette, che mi era stato venduto nero anzichè panna, più simile a quello del C16, fratello scemo del più nobile C64, e parente alla lontana del cugino scavezzacollo, il famigerato Vic20. Qualche tempo prima che arrivasse l’Amiga a distruggere tutte le nostre soddisfazioni.

Insomma, avevo trovato la modalità per parare i tiri degli avversari. E tutto da solo. Quel giochino, fatto di teste quadrate e corpi angolari che, all’occorrenza, si portavano autonomamente verso la bandierina del calcio d’angolo simulando una pisciata fronte pubblico, ebbene era sotto il mio controllo. Dovevo condividere.

Mia sorella stava pettinando una barbie a cui avevo bruciato una mano sul fornello. Le sue condizioni andavano pian piano migliorando. Ancora sotto choc, non avrebbe colto appieno la soddisfazione di chi ha raggiunto Il Traguardo. Fremevo. Lo dissi a mia madre, all’epoca Capitolianamente impegnata a schierarsi tra Clegg e McCandless, ma il fatto che i miei piedi fossero posizionati nel bel mezzo del mucchio di polvere appena spazzata non aiutò la comprensione genitoriale. Schivai di poco la ciabatta/nunchaku materna, e cercai con lo sguardo papà. Era uscito.

Allora chiesi di poter scendere sotto. Gli amici avrebbero capito. Gianmarco aveva ancora l’Intellivision, ma ogni tanto veniva da me con i suoi baffetti vaporizzati da dodicenne corpulento ed alcune cassette piratate per il C64. Gli altri avevano di tutto. Li trovai, dopo 15 minuti di peregrinare tra bordi di carta di calippo ripiegati e smangiucchiati, mozziconi di Kim volati dal balcone della discinta mamma di Massimo, pigne malate e lattine di birra mezze vuote.

Il gruppetto si era riunito in un angolo del garage di Gianmarco, quasi come foglie secche ammucchiate, a leggere un qualcosa che non riuscivo a capire. Cercai di farmi spazio, ma le teste sudate degli altri bambini occupavano tutti gli spiragli. Chiesi ad uno di loro cosa stessero facendo, ma non mi rispose. Provai a farmi spazio a gomitate, ma ricevetti una tacchettata sullo stinco che mi fece piegare in due. Poi, dal mucchio, volò una rivista e 3 bambini ci si avventarono sopra come topi al formaggio. Intravidi una foto, dei corpi annodati, un polpaccio, un’ascella, un seno, due seni, poi molto di più. Alcune pagine non si riuscivano ad aprire, come saldate. Quando gli altri si allontanarono, ognuno col suo premio da sfogliare tra le mani, vidi Gianmarco seduto su di una catasta di giornali, dalle cui copertine spuntava di tutto. Mi parse di vedere un uomo con tre gambe e ci misi un po’ a capire il verso di una capriola. Lui raccontava, con dovizia di particolari, tutto quello che era figurato. Di colpo era diventato un esperto. Sciorinava sostantivi e verbi di cui ignoravo l’esistenza. Parlava di posizioni, tecniche, dava consigli a questi dieci piccoli indigeni, inebetiti e curiosi. E poi disse che, il giorno prima, grazie ai saggi consigli di suo cugino, era venuto, e venire era stata l’emozione più bella della sua vita.

“Venuto da dove?” chiesi io. Scoppiò una fragorosa risata. Poi tutti si voltarono altrove. Da quell’istante nessuno avrebbe più parlato di commodore, di load, return, pressplayontape.

Me lo chiesi per un po’, quasi con un antimantra preadolescenziale di fine secolo, da dove fosse venuto Gianmarco. Poi l’ho capito. E ho riposto, anch’io, il mio Commodore 64.

[Scritto da Ettore Aldimari]

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