22 novembre 2012

Sopravvivere all'inferno



Certi giorni iniziano tutti allo stesso modo; sveglia, ancora cinque minuti, caffè, cesso, varie ed eventuali.
Altri giorni invece non iniziano affatto. 
Questa è la storia di uno di quei giorni mai iniziati. 

Palermo, luglio 1987. 
Non ho molti ricordi di quella torrida estate del 1987, non sono nemmeno sicuro che fosse torrida, sebbene l’aggettivo sia certamente calzante in una frase che include la Sicilia e l’estate. 
L’ossimoro tiepida estate lo lasciamo a Baricco e ai finocchi che lo apprezzano. 
In quel periodo, per poco più di un mese, passai un po’ di tempo della mia vita insieme ai miei genitori, nella nostra Palermo. 

Quando venni al mondo il padre di mia madre decise che si sarebbe preso cura di me, ma non di lei, rea di colpe e peccati presenti nel cervello del vecchio e chissà, probabilmente anche nella realtà.
Un’atmosfera che non rispecchia appieno il clima di stabilità che un bambino nato sulla sponda più fortunata del Canale di Sicilia dovrebbe vivere per permettere un sano sviluppo psicofisico ma, hey, potevo nascere cinese e assemblare iphone e Wii per 100 dollari al mese prima di decidere di lanciarmi nel vuoto da uno dei dormitori/gulag dove giacciono altri surrogati di essere umano, mentre centinaia di milioni di persone in tutto il mondo s’indebitano per l’ultimo smart phone e pisciano sul mio sangue.
Almeno sulle mie lacrime non ha mai pisciato nessuno.
Non nello stesso modo.

Liti violente erano all’ordine del giorno quando ero piccolo, i motivi saranno chiari più avanti, ma chiari per davvero non lo saranno forse mai.
Mio nonno era un uomo violento, patriarcale, ottuso e poco empatico.
 Mi piaceva isolarmi in un mondo tutto mio, quando ero piccolo, fatto di amici immaginari e avventure magiche.
Avevo inventato un posto tutto mio, sicuro, dove nessuno avrebbe potuto nuocermi.
Nel guscio della mia cameretta entravano comunque urla che non riuscivo a comprendere, uno dei miei primi lucidi desideri fu non sentire più nessuno urlare.
Una mattina mia madre mi disse: “prendi i tuoi giocattoli, vieni a stare con noi”
E così feci un fagotto con i miei lego e la seguii, sempre senza capire.

La casa in cui giunsi dopo 2 ore di autobus era ben più fatiscente di quella da cui partii. Non c’era acqua corrente e il bagno non aveva la porta. 
Però avevamo un cane. 

“Possiamo avere un gatto? I mici mi piacciono di più!” 
Ma no, non si poteva. Non senza una ragione, solo che anche quella mi sarebbe stata chiara molti anni dopo. 

Una notte, disturbato dall’inquietudine dell’insonnia, scombussolato dal trasloco, leggermente spaesato, un piccolo Emix dai boccoli castano chiaro scese dal suo nuovo, ruvido letto e camminò a tentoni cercando l’interruttore della luce del corridoio, purtroppo senza trovarlo. 
Un corridoio lungo e spaventosamente buio per riuscire ad andare in un bagno senza porta tutto da solo. 

In salotto c’era la fievole e traballante luce di una candela 
Il bimbo aprì la porta socchiusa. 
Sua madre era seduta sul divano, addormentata, o qualcosa di simile, la testa abbandonata, la bocca spalancata. 
“Mamma?” 
Si domandò il piccolo, come volesse chiedere “Sei tu? Davvero?” 
Lei non rispose né si destò da quell’innaturale sonno. 
“Nunzio?” si chiese il bambino, scuotendo il braccio di quell’uomo che non è mai riuscito a chiamare “papà”. 
Sul tavolino basso di compensato che stava accanto a loro c’erano cose che non avevano un nome. 
C’era anche una siringa, la spada che ogni infante impara a temere prima ancora che il concetto di timore o spada abbia forma. 

[Continua. Ma sono 5 euro, l'iban lo avete.]

let me tell you a story
Drink! a che serve la psicoanalisi quando puoi avere un blog?